Il legame (l'amore) con un bambino in attesa di referto | Giuliana Mieli

Il legame (l'amore) con un bambino in attesa di referto | Giuliana Mieli

Viene spontaneo domandarsi: è forse il bambino a essere in attesa di referto o piuttosto la mamma? È il bambino che pone una condizione o è la mamma? Non certo il bambino che sta "formandosi” e che non conosce l'avventura della vita; e il "porre condizioni” è un atteggiamento compatibile con il materno? Se sì, in che senso?
L'attesa di referto si situa nell'ambito della consapevolezza materna e quindi nella responsabilità e libertà della coppia: è una trasformazione che oggi dobbiamo alla scienza e alla tecnologia.

Credo sia molto importante ragionare su questi temi invece che vivere passivamente ciò che la medicalizzazione della gravidanza propone quasi come un asettico protocollo e, di nuovo, ricordare che non si tratta soltanto di esprimere opinioni, ma di fare i conti con la nostra natura biologica, comprenderla, assecondarla non per perdere la libertà ma per calibrarla alle esigenze affettive che rendono possibile la sopravvivenza. Se non lo si fa, si esercita non una libertà ma una sorta di arbitrio che lascia inevitabilmente dietro di sè tracce difficili da cancellare.
Vale infatti per la diagnosi prenatale ciò che vale per la gravidanza tutta: la scienza medica e la tecnologia – lecite ed utili se utilizzate con criterio e come supporto là dove è necessario – non devono invadere l'ambito affettivo della maternità per trasformare la preoccupazione e la cura in una vana ricerca di garanzie. Nell'amato quadro del Giorgione 1 il contadino/guerriero osserva statico e stupito il ripiegamento affettivo fra madre e bambino, pronto a intervenire se ce ne fosse il bisogno: il maschile, il pensiero razionale, la tecnè dovrebbe rispettare umilmente ciò che appartiene alla sfera degli affetti e adoperarsi per sostenerlo, proteggerlo e garantirne l'estrinsecarsi naturale che presiede alla sopravvivenza.
E' infatti semplicistico pensare che si possano applicare alla gravidanza protocolli e controlli adatti magari a fare stare in piedi una casa o un ponte: nel fare questo l'invenzione tecnologica appare sciocca perché sembra voler misconoscere della vita proprio quell'indeterminato che la rende assolutamente affascinante. E, del resto, come sa chi ha pratica in questo campo, la gravidanza è molto più governata e garantita da fattori emotivi che dalla tecnologia. "Contro la tecnica non abbiamo nulla da obiettare se non la sua funzione egemone e totalizzante, che lascia perire ai suoi margini tutto quel volume di senso che, non essendo tecnicamente fruibile, è lasciato essere come parola inincidente, puro rumore che non fa storia” 2

Se dunque ribadiamo che la gravidanza non è una malattia e ci opponiamo a un pensiero semplicistico e riduzionistico che ha eliminato ogni attenzione e comprensione per la sfera emotiva dell'esistenza umana, questo vale anche per la diagnosi prenatale che si situa nel percorso dell'avventura già iniziata del legame madre-bambino.

Fino a non molti anni fa, la coppia non sapeva quale bambino aveva concepito e aspettava con trepidazione la nascita per essere certa che tutto fosse andato bene. C'era forse anche una diversa accettazione del lutto e dell'insuccesso che certo non era garante in sé dell'adeguato accoglimento di una sfortunata creatura. Oggi la diagnosi prenatale inserisce una libertà di scelta impensata, forse anche migliore rispetto a un'accettazione forzata di un evento non voluto. Ma questa libertà dolente che previene una nascita e non un concepimento, che previene una delusione ma non un lutto non può essere fatta passare per un controllo onnipotente: perché resta da elaborare l'incertezza e la tensione dell'attesa durante gli esami di controllo meno invasivi – quasi routinari ormai – che precedono e decidono dell'eventuale scelta di un approfondimento diagnostico. Per non parlare del desiderio tradito, della speranza caduta, del dolore dell'insuccesso e della rinuncia qualora il verdetto fosse negativo. Il lutto resta dunque un evento possibile nella vita dell'uomo che continua a doversi misurare con il limite. L'insuccesso del progetto non può infatti essere prevenuto e certamente non dalla tecnologia: va accettato, quando capita, nella sua crudezza e l'unico aiuto per elaborarlo resta l'alta qualità affettiva delle relazioni all'interno della coppia e nella rappresentazione solidale e partecipe di chi ha accompagnato e condiviso quel percorso di speranza. E' infatti possibile per la donna e per la coppia astenersi dal coinvolgimento e dalla speranza? Sarebbe un atteggiamento schizoide, impraticabile nella fisiologia.

Oggi molto si sa in termini scientifici del rapporto fra mamma e bambino che si instaura dal concepimento. Di più, molto si sa di come il concepimento si situi all'interno di una storia affettiva personale che coinvolge la coppia, il suo legame, il suo amore, la sua scelta di procreare. Questo altro sapere non si contrappone al sapere medico ma dovrebbe ad esso integrarsi spostando lo strumento tecnologico nel ruolo di comprimario e togliendolo dall'imbarazzo di dover tutto giustificare con i suoi mezzi. Per questo l'ostetrica, versata a un sapere diverso e più adatto al rispetto della complessità, dovrebbe stare al centro del percorso gravidico. L'amore, nella sua coniugazione che scorta la vita umana dalla dipendenza infantile alla reciprocità adulta, non è un optional ma uno dei fattori fondamentali, il primo, che presiede alla sopravvivenza della specie. La psicologia, in tempi recenti, ha descritto come l'affettività sia intrisa nella nostra corporeità attraverso orientamenti di comportamento dipendenti dagli ormoni e tesi, nella complementarità fra femminile e maschile, all'accoglimento, alla cura e alla crescita del bambino. 3
Bowlby dimostra - saldando lo studio dell'uomo a quello del mondo animale cui l'uomo splendidamente appartiene – che il ripiegamento affettivo della mamma sul proprio piccolo precede e permette l'allattamento e la cura del neonato in quanto garantisce con la sua preoccupazione attiva e protezione la sua sopravvivenza. L'amore materno non è quindi una cosa che si sceglie ma che capita, incoercibile, con l'impennata progestinica al momento stesso del concepimento, potente come le contrazioni del parto che non si controllano ma si accolgono per assecondarle. La simbiosi madre-bambino che si instaura al momento del concepimento non è un fatto esclusivamente fisico ma anche – e soprattutto – una simbiosi affettiva, un sentire emotivo che agisce immediatamente sulla donna e la fa fermare, la trasforma nel sentire, la fa reclinare su di sé concentrata e assorta sul cambiamento fisico ed emotivo che si sta realizzando dentro di lei, dove la nausea o la stanchezza risultano come un ovattamento dalla realtà, una introspezione, una diversa percezione del tempo. Di più, la modificazione ormonale lavora nella direzione di un'accentuazione della sensibilità materna che la avvicina indefinitamente al sentire innocente e diretto del suo bambino, ignaro del mondo: quasi una regressione allo stato infantile che favorisce l'identificazione con la propria creatura per meglio comprenderla.
Questo inizio emotivo della gravidanza non può essere bloccato, sospeso in attesa degli eventi: sicuramente non nella donna ma anche nel partner che se ha partecipato con desiderio e passione al progetto genitoriale non potrà trattenere la gioia e la speranza in attesa di sapere se ne vale la pena. Tale è il mondo dei sentimenti, quello che rende la vita affascinante, quello che permette la serenità e la felicità. Guai se nella vita non vivessimo la sua avventura, se non la incastonassimo di speranze e progetti per non essere delusi: non potremmo vivere. Un orizzonte di vita senza speranza è ciò che caratterizza la depressione, malattia dell'anima.

L'uso diffuso e onnipotente della tecnologia porta invece con sé la mentalità dell'efficienza e il mito del prodotto perfetto e garantito. Ciò mal si adatta alla comprensione e misurazione di aspetti della vita quali felicità, salute, intelligenza, successo, troppo complessi perché questo tipo di sapere possa fornire alcuna indicazione per conquistarli.
Nel mondo tecnologico, che è un mondo freddo e spietatamente individualistico, tutto è valutato in termini di successo o insuccesso: lo studio, lo sport, la bellezza, la salute, e quindi anche la maternità che diventa terreno su cui misurare le proprie abilità e possibilità. Del resto, nella vita programmata in auge oggigiorno, anche il diventar madri è un compromesso con il proprio desiderio in attesa che altri obiettivi – guadagno, abitazione, carriera – si siano realizzati. Quando poi ci si concede di realizzarlo, lo si carica della disperazione di poterlo mancare e non si è più disposti ad aspettare, il tempo che resta è poco, non si può rischiare, nella programmazione non c'è posto per l'insicurezza. Questo vale anche per le giovani coppie avviate disinvoltamente alla fecondazione assistita dopo un paio d'anni di tentativi falliti.
Il bambino diventa così "prezioso” a giustificazione di un moltiplicarsi degli esami e dei controlli, caricando l'iter della gravidanza di un'ansietà indebita che la turba e che si protrarrà sul figlio ormai nato a offrirgli un nido scomodissimo per crescere perché aggravato di un investimento esagerato che la priva della libertà di poter essere sé stesso.
Troppe volte mi è successo di incontrare donne che, o perché predisposte a un'impostazione asettica ed efficientistica, o perché così trattate dalle strutture cui si rivolgevano, sembravano vivere la loro maternità esclusivamente come una prestazione cui l'occhio tecnologico fungeva da preludio, quasi un ok per poter iniziare la maternità, un test che misurava la propria capacità e adeguatezza all'esser madri. E' la stessa operazione di semplificazione che trasforma il parto in una serie di contrazioni dolorose e lo invade con interventi che lo violentano come induzioni e cesarei ingiustificati o l'uso indiscriminato dell'epidurale. La semplificazione prende la parte per il tutto, anzi la separa da quel tutto che solo può dare significato.

L'ausilio tecnologico introduce in realtà, come dicevo, solo la possibilità di un sapere precoce sulla salute del bambino e permette di scegliere se continuare la gravidanza di fronte a un'anomalia fetale che può portare a una malattia del nascituro. Si tratta quindi di un'occasione in più per una scelta responsabile: questo e nient'altro. Lo sottolineo perché spesso nel vissuto della donna l'attesa del risultato dell'amniocentesi o dell'ecografia diagnostica viene vissuta come se si trattasse di un verdetto, quasi che la verità fosse nel mezzo di indagine e non già scritta nel proprio utero. E, di nuovo, quasi che si trattasse di un test sulla propria adeguatezza e non un responso orientato a valutare, nelle incalcolabili pieghe dell'esistenza, la propria disponibilità materna o paterna a fronteggiare difficoltà impreviste. Considero spietato il ragionamento di chi è disposto ad anticipare esami invasivi, spesso più rischiosi, per evitare gli ingombri abortivi di un esame più tardivo: mi sembra la quintessenza della programmazione egoistica che poco ha a che fare con il materno e che trascura quanto la tensione e lo sforzo del non sentire, nel vano tentativo di una sospensione del coinvolgimento, contrasti con la pregnanza dell'attesa e vada a interferire con il legame andando inevitabilmente a influire sullo svolgersi della gravidanza. La fobia dell'insuccesso, che diventa più importante del rischio per il bambino, è più forte in questi casi della speranza.

Inoltre, nella mia lunga esperienza di lavoro in diagnosi prenatale, ho potuto constatare come la rinuncia di fronte a un bambino malato sia un lutto molto difficile da elaborare, più ad esempio di una scelta abortiva fatta per ragioni non attinenti alla salute del bambino. Perché, risultava, l'amore materno è per sua natura un amore senza condizioni ed è molto più facile rinunciare a una creatura per paura di non avere i mezzi spirituali o materiali per accudirlo che non a causa di una sua imperfezione: aiuta a elaborare il lutto solo la previsione di una vita di sofferenza per la propria creatura e la preoccupazione sincera e dolente per il suo futuro nell'eventuale perdita dei genitori in un mondo così refrattario a preoccuparsi dei diritti di chi non è adeguato. E' solo la valutazione di questi limiti che può aiutare a scegliere se vivere o no un'avventura. Ma è una scelta a posteriori, l'umano retrocedere di fronte a una difficoltà che non risparmia dolore e delusione. La speranza si infrange e non resta che elaborare il lutto di un evento sfortunato. Si tratta dunque ancora di una scelta di amore, di rinuncia. La disponibilità materna, infatti, è fatta anche di limiti: é il "maschile” della donna, è il bordo dell'utero che contiene per dare sicurezza, che protegge per preservare. Il materno e il paterno possono e devono porre limiti, praticarli, insegnarli; ciò che non possono fare è porre condizioni per amare né prima che il bimbo nasca, né dopo: come potremmo infatti sospendere il nostro amore per i nostri figli a causa di un futuro ignoto? Non c'è quindi scampo dal lutto, non c'è tecnologia che tenga: l'ambito della nostra esistenza è quello della responsabilità e della scelta, privo di magiche vie di fuga. Spesso nelle donne che fanno un aborto terapeutico c'è una identificazione fra il bambino cui si rinuncia e le parti di sé dolenti e malate, piccole e handicappate come la propria creatura, considerate responsabili dell'insuccesso. È molto importante aiutare emotivamente la donna a non evacuare queste parti dolenti di sé, ma a comprenderle ed accettarle integrandole come aspetti emotivi legati alla propria storia, importanti nella verità che rivelano, utili per riorganizzare il proprio campo affettivo che, così rinnovato, può impegnarsi in una nuova esperienza procreativa. C'è infatti un intreccio molto profondo fra le fantasie che accompagnano l'immagine interiore di sé che ha una donna e la qualità e l'esito della sua gravidanza.

Una splendida ricca complessità si nasconde dunque anche in ciò che ci sembra malato, inadatto, disdicevole: appiattire tutto questo in un percorso di successo e insuccesso, fortuna o sfortuna, lo so prima o lo so dopo, non restituisce lo spessore dell'umano per quello che è e, di più, impedisce qualsiasi elaborazione del rischio e del lutto che possa consolare e faticosamente restituire la fiducia per sperare ancora e credere in sé e nella vita.


1) "La Tempesta”
2) U. Galimberti "I miti del nostro tempo” Feltrinelli, Milano pag.83
3) F.Fornari "Il codice vivente” Boringhieri, Torino 1981
J.Bowlby "Una base sicura” Cortina, Milano 1989
G.Mieli "Il bambino non è un elettrodomestico” URRA, Milano 2009

Bibliografia:

"La Tempesta”
U. Galimberti "I miti del nostro tempo” Feltrinelli, Milano pag.83
F.Fornari "Il codice vivente” Boringhieri, Torino 1981
J.Bowlby "Una base sicura” Cortina, Milano 1989
S.Carter "Attachment and Bonding” The Mit Press , Cambridge Massachusets 2005
G.Mieli "Il bambino non è un elettrodomestico” URRA, Milano 2009